04 - Le citazioni
"C’erano delle case – palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli – che avevano delle stanze dove stavano in quindici, venti, come all’albergo dell’Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno."
"I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino."
"Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’una assieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.
M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era una lavoro che facevo anch’io – di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove."
"A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore – quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori ale finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era più movimento era in piazza – un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi contavano sempre."
Cesare Pavese, "La luna e i falò", Torino, Einaudi, 1950
"I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino."
"Passai la mattinata in banca e alla posta. Una piccola città – chi sa, intorno, quante altre ville e palazzotti sulle colline. Da ragazzo non mi ero sbagliato, nel mondo i nomi di Canelli contavano, di qui si apriva una finestra spaziosa. Dal ponte di Belbo guardai la valle, le colline basse verso Nizza. Niente era cambiato. Solo l’altr’anno c’era venuto col carro un ragazzo a vender l’una assieme al padre. Chi sa se anche per Cinto Canelli sarebbe stata la porta del mondo.
M’accorsi allora che tutto era cambiato. Canelli mi piaceva per se stessa, come la valle e le colline e le rive che ci sbucavano. Mi piaceva perché qui tutto finiva, perch’era l’ultimo paese dove le stagioni non gli anni s’avvicendano. Gli industriali di Canelli potevano fare tutti gli spumanti che volevano, impiantare uffici, macchine, vagoni, depositi era una lavoro che facevo anch’io – di qui partiva la strada che passava per Genova e portava chi sa dove."
"A Canelli entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore – quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori ale finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era più movimento era in piazza – un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone. Ma il grosso platano era là. Si capiva che i soldi contavano sempre."
Cesare Pavese, "La luna e i falò", Torino, Einaudi, 1950
"Adesso non m’importava più se di là da Cassinasco non avrei visto il mare. Mi bastava sapere che il mare c’era, dietro discese e paesi, e pensarci camminando tra le siepi. Ci pensai tutto il pomeriggio, perché la collina è quasi piana e uno che guardi crede sempre di arrivare e non c’è mai. Terrazze, giardini e balconi se ne vedevano a ogni svolta, e io in principio li guardavo, specialmente le piante che avevano una foglia o un colore mai visto. Era un’ora, quella, che nessuno passava, solo qualche biroccio. Fermandosi, di là dalle siepi si sentiva la vigna e si vedevano le cane: è questa la bellezza di Canelli. Sembra di essere lontano, in un paese diverso, e la collina non è più collina, anche il cielo è più chiaro, come quando fa sole e piove insieme, ma la campagna la lavorano e fan l’uva come noi."
"A me piacciono i balconi e i terrazzini sopra i vicoli, perché dei fiori come hanno a Canelli non li avevo mai visti."
Cesare Pavese, da "Tutti i racconti", capitolo "Il mare", Torino, Einaudi, 1948
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